Von Holden Studio inaugura la stagione espositiva con ‘ALL’, mostra personale dell’artista siciliano Adriano La Licata (Palermo, 1989), impreziosita dal supporto curatoriale di Francesco De Grandi, artista di una generazione più grande ed attento al vivaio di artisti del capoluogo.

La mostra che si inaugura giovedì 17 dicembre 2015 alle ore 19.00 (visitabile sino al 17.01.2016), si compone di un netto corpus di opere, 3 momenti fondamentali della più recente ricerca dell’artista.
Si è preferito centrare il fuoco del progetto su pochi elementi precisi quanto fragili, lungo l’equilibrio dell’astrazione biografica. Tra documentazione ed ambiguità, un delicata vena tragicomica ed una spiccata propensione meditativa, Adriano La Licata indaga – come ben descrive con le sue parole – ‘quell’energia sensibile che si crea tra due o più punti’.

“Non ebbero già mai scarogna
Quanto quest’anno – i matti -,
Ché i savi si son fatti
Sciocchi balocchi per loro danno:
Non sapendo più che si fare
Degli scarsi loro cervelli
Si illudono di farsi belli
Mettendosi a scimmieggiare”.
William Shakespeare, Re Lear.
Adriano La Licata diverte per smascherare la realtà nascosta dietro l’apparenza o la vera follia insita nella saggezza. Trova nella forma ironica la sua funzione originaria, quella di avere il compito di sovvertire l’ordine e di rivelare gli inganni. Nello stesso tempo trova una strada personale, intima e genuina per affrontare temi assoluti: il rapporto col sacro, col rito e la conoscenza di se. Li affronta, li esamina con piccoli gesti, spostamenti di senso fragili, individuando sincronicità domestiche. Egli è convinto che ogni cosa è collegata, che tutto è Uno e che quindi ovunque si posi il suo sguardo troverà risposta alle sue domande. Meditazioni su manici di scopa, dispositivi che dopo anni di celibato trovano l’amore, perché i suoi attrezzi che non possono più pulire il pavimento non sono inutili, puliscono se stessi, meditano e si masturbano, perdono la loro funzione e con un sillogismo ironico, con un sorriso pacificante sulle labbra, con un gesto che è la cifra caratteristica del lavoro di Adriano, diventano tre Yogi in posizione del loto con delle prorompenti erezioni.
L’artista ricerca una sacralità anarchica, autobiografica, ironica, tragicomica ma mai dissacrante.
Ci parla di come sta attraversando il mondo, della sua pratica meditativa, del viaggio e dei riti connessi alla sua personale esperienza della conoscenza. La Licata ci pone di fronte un lavoro molto intenso, quasi un atto Psicomagico. Così una diapositiva presa dal cassetto di famiglia innesca una serie di connessioni tra se stessa e il modo con cui meccanicamente si riproduce e si rivela ai nostri occhi, tra il soggetto rappresentato e la superficie su cui si proietta. L’artista diventa la spalla della madre, si prende cura di se stesso, per essere padre e smettere di essere figlio. Nudo, al freddo, scaldato soltanto dalla luce del proiettore (il calore del seno materno) dovrà sopravvivere alla notte. Un rito di iniziazione auto-inflitto, il piccolo Adriano guarda con piglio consapevole al di fuori dell’immagine, guarda se stesso in un tempo ciclico che si ricongiunge.
Non sempre Adriano riesce nel suo intento, a volte i rituali di passaggio falliscono miseramente. C’è un Corner che ancora non riesce a superare, ci sbatte e ci risbatte ogni anno. Adriano vi ritorna sempre, ogni inverno, ogni estate, ogni nuova stagione, ogni ciclo della vita gira l’angolo, trova un muro e ci sbatte, si fa male, sorride, si ricompone e ricomincia. Allora decide di fare un monumento a questo gesto quasi paranoico, di ritornare sempre in un luogo, umanizzarlo al punto da pensare che un angolo di muro sia un amico da andare a trovare. Non sappiamo se l’impronta su questo muro apparentemente solido ma in realtà fragilissimo è il segno dell’impatto di Adriano come Willy il coyote, o il tentativo di umanizzazione di un muro, oppure un autoritratto metaforico. O magari tutti e tre.
Rimane questo senso strano, di un lavoro leggero, soave, così puro da sfiorare l’ingenuità, ma al tempo stesso profondo e vero.
Francesco De Grandi





